La Sala Colorado del Windsor Florida Hotel di Rio de Janeiro – quella che per dieci giorni è stata la casa dell’Italia Team della vela – è stata la cornice dell’incontro con la stampa del team azzurro ed il suo staff.
Ad introdurre l’appuntamento è un emozionato Michele Marchesini, dal 2013 d.t. della FederVela.
“Siamo venuti qui con una squadra composta da 13 atleti con 9 classi qualificate e 14 persone di staff, 355 prove di giornata a Rio de Janeiro, abbiamo raccolto oltre 5000 vettori di corrente, un lavoro intenso durato tutto il quadriennio.”
“Ho un certo grado di delusione per i risultati, ma non ho rammarico per la prestazione della squadra perché abbiamo disputato più finali che a Londra. Siamo arrivati in Medal Race con i nostri atleti che erano i migliori della serie di qualificazione. Purtroppo nel momento decisivo sono stati commessi degli errori che in un contesto cruento, spietato e inappellabile come un Olimpiade non sono perdonabile e l’appello è con cadenza quadriennale. Dal punto di vista tecnico non è mancato nulla. Quello che i è mancato è stato un minimo di freddezza, di fortuna, di mille instinct nel momento. Il format olimpico è difficile, del resto è stato creato per avere il ‘drama’, per far si che il favorito non vinca. Un concetto esasperato dal campo di regata: non stiamo qui a recriminare, ma il campo della Medal Race di Flavia Tartaglini non era idoneo. Se hai un PRO che da una partenza così, c’è poco da fare“.
“Questi ragazzi valgono, ci hanno messo tutto. Non sono stracci, è gente che sa andare in barca a vela. Abbiamo portato quattro ragazzi in finale dopo dieci/dodici prove: avevano la medaglia al collo. Quando sono arrivato a dirigere la squadra nel 2013 sono stato il primo a inserire la figura di uno psicologo. Sapevamo, ad esempio, che per Giulia Conti era un aspetto fondamentale e abbiamo portato qua anche il suo mental coach. Abbiamo portato alle Olimpiadi velisti che i bookmaker inglesi consideravano tra i favoriti… forse bisognerà cambiare qualcosa a livello di approccio mentale, io ci ho provato. I cambi culturali non sono facili da introdurre“.